Un recinto con un buco è come nessun recinto?
     
Sono su un treno. Il colpo continuo delle ruote sui binari. Stavi martellando i tubi ricurvi della parabola di nord-est. Un colpo dietro l’altro. Com’è difficile rendere tangenti due curve. Un ballatoio si congiunge all’altro. Ma come. Battente, una parola de I transformatori di Lyotard mi percuoteva la testa. Sottoracconto meccanico. Altra parola. Perché mi tormentava tanto. L’officina dabbasso, qui si parla del sottoracconto meccanico. Capisco ora. Me lo diceva lui. Tutte quelle interrogazioni sull’atto di creazione ….analogie. Mi sto convincendo che la strada non sia sbagliata. Improbabili previsioni del tempo, come finisce? “Cosa possiamo dire di intervalli di tempo che non possiamo apprezzare direttamente? Ci sono diversi modi con cui possiamo allargare la nostra scala dei tempi e andare a vedere, che cosa succede. Qui vedete delle gocce che cadono in una tazza di latte. Vediamo ora, una di queste gocce e guardiamo uno per uno i fotogrammi del film. Questo ci dà un’idea di quello che succede, ma non ci dice molto lo stesso. I fotogrammi sono stati presi a intervalli di 1/24 di secondo, e passano all’incirca alla stessa velocità. Supponiamo di avere una cinepresa ad alta velocità, che impressioni migliaia di fotogrammi ogni 24esimo di secondo. Allora il film viene più lungo e guardando questi fotogrammi possiamo vedere cosa è successo fra l’uno e l’altro dei fotogrammi che avevamo già visto. Sembra quasi incredibile in un certo senso, eppure la goccia di latte cade nella tazza con una specie di spruzzo.Passa dallo stato che abbiamo visto a quello finale, con una serie di processi continui. Non saremo mai in grado di osservare direttamente che cosa succede in questi brevi intervalli. Tuttavia crediamo che questa tecnica con cui osserviamo gli eventi in una scala dei tempi dilatata sia perfettamente legittima, ma non possiamo provarlo.Ecco un altro esempio di quanto è delicata la nozione di tempo”. Nell’analizzare un procedimento, sembra spesso di poter cogliere situazioni molto più che interessanti, chiarificatrici di un certo modello di creazione. Operazioni di analogia. Si può però essere colti dal dubbio se sia lecito farlo, soprattutto se l’opera non scaturisce dal progetto, ma dal desiderio, dalla necessità. E come posso parlarti di drammaturgia del sottoracconto meccanico? Subisci il limite di una anticipazione imperfetta.
 

Conduco ricerche sul campo.Com’è possibile, anche se spesso accade, che qualcun altro, a posteriori, mi indichi la via che ho già percorso. Capisci che hai agito così, sembra quasi te lo dica qualcun altro. Parlare del sottoracconto meccanico, come ti dicevo, è tutto molto legato al concetto di vita. "Di dove parlava ? Dove udiva? Chi era divenuta? Che cos'è il fluido incontestabile che conferisce, simile al leggendario anello di Gige, l'ubiquità, l'invisibilità, la trasfigurazione intellettuale? Con chi insomma avevamo a che fare?". Problemi. Sono nel reparto essiccazione di uno zuccherificio. E' sera. Ultimo giorno della campagna. Premo i pulsanti di arresto degli essiccatori: un tamburo metallico lungo 40 metri con un diametro di 8. I motori che azionano la ventilazione cominciano a rallentare, un suono speciale, che ho inseguito spesso: il suono della cessazione di un’attività, e quella dei motori elettrici è molto particolare. Ma era molto di più di una cessazione, in quel rallentamento io vedevo il morire e non potevo sopportarlo. Risalgo la scaletta del reparto macchine, le riavvio..Bisogna custodirla una macchina, ascoltarla, camminare con lei; certi pensieri: con una mano toccavo la superficie ruvida, rugginosa e aspettavo. Ogni passaggio rotante del tamburo mi ridava quella porzione toccata; a volte saltavo per anticipare quel contatto. Nella semi oscurità scrutavo il tamburo alla ricerca di qualcosa: avevo chiare nella memoria Pawlosky e le sue descrizioni dei tessuti malati di certe strutture industriali. Forse avrei trovato una piccola ferita e pus emergere. Sentivo battere forte sulla mia spalla : "la macchina ha modi di comportamento prestabiliti: se non è conforme, è “andata a male”; in tal caso occorre intraprendere passi per riportarla alla conformità. Se non è possibile ripararla, va buttata via".Si, sono su un quaderno nero. Sto ragionando sugli elementi cinematici e dinamici e mi sembra di poter descrivere in modo chiaro e preciso il funzionamento della macchina: è in effetti sufficiente un bravo ingegnere per farla funzionare. Eppure quell’essiccatore sembra un essere estremamente fragile: può accettare residui vegetali per essiccarli, ma li può accettare solo se questi entrano con un certo livello di umidità, se hanno una certa consistenza e se, una volta avviato il processo di essiccazione, cominciano ad amalgamarsi in modo sufficientemente compatto. Vedo qualcosa che non c’è. L’ho segnato con una matita rossa: “questi sono punti interessanti da tenere a mente quando si considerano le implicazioni del paragonare le persone alle macchine”. Un ben noto paradosso dice quanto segue: “il numero zero è piccolo, se nè un numero piccolo, allora anche n + 1 lo è. Quindi tutti i numeri sono piccoli. Un dualista potrebbe usare un simile argomento contro l’attribuzione di intelligenza a ogni essere vivente….un’ameba ovviamente non può pensare. Se un essere costituito da n cellule non può pensare, aggiungere una singola cellula non farà differenza”.
     
E’ possibile che questo esempio degli essiccatori  abbia insito in sé una contraddizione, rispetto alle premesse iniziali. L’essiccatore in effetti, ha la possibilità di funzionare correttamente: sarebbe sufficiente che i materiali entranti avessero composizione costante. Eppure nella definizione di macchina data da Franz Reuleaux: “trappola tesa alle forze naturali” non posso non vedere una chiara definizione di vita. Ho sempre trovato un limite in queste mie considerazioni; certi miei esempi, anche per me un po’ bambineschi, vedere una macchina come un essere vivente. Non mi capita con le pietre. Tutto questo mi fa sorridere. Ma a me piace.Ciò che ora mi conforta è il fatto che sembrano proprio questi tentativi, questo cercare analogie, la parte più interessante. Se mi sforzo di  capire come procedono certi organismi più semplici del nostro, è probabile che questo possa  aiutarmi a capire sistemi più complessi.L’uomo crea forme di vita. "Creo forme nella mia mente e queste forme assumono esse stesse i mezzi per procedere nel mondo". Se ciò è vero, forse è anche possibile la creazione di strutture che non vivano di solo movimento; intendo dire che non m’interessa l’ingranaggio, il meccanismo in sé, per le mie opere. E’ necessario che il movimento sia accompagnato da un gradiente. A quel tempo mi interrogavo spesso sulla parola composizione avvicinandomi a quello che poteva essere la composizione nelle arti visive. Immaginavo di riferirmi ad un quadro di Kandinsky, di osservarlo cercando di intuire attraverso quelli che erano gli elementi compositivi, il percorso di chi aveva composto. Partendo dal presupposto che un’opera visiva è il parto di una mente umana, e naturalmente ciò è valido anche per una composizione teatrale, pensavo che il procedimento di quest’ultima non dovesse essere troppo distante dalla prima; semplicemente l’artista visivo usava altri mezzi per il suo fine, coinvolgeva variazioni cromatiche, densità di ombre, riflessi, lettere,  per ottenere una sorta di racconto, di storia di un immaginario che non si legava ad un succedersi di fatti, ma forse al succedersi di idee, sensazioni.Il mio tentativo era quello di realizzare una composizione teatrale utilizzando la stessa  metodologia, per variazioni di sensazioni, di emozioni, creando gradienti di intensità. Sentivo che per ottenere questo dovevo ricorrere a strutture che non appartenessero al quotidiano. Da questo pensiero nascevano degli accorgimenti meccanici miniaturizzati. Strutture molto complesse che vivevano di una loro vita. Così l’archetto di Nur Mut era una struttura metallica ad U, chiuso da una base in tubo cromato che avvolgeva  la testa della figura misurata nell’antropometria; cinque microtensori azionavano altrettanti percussori che agivano alternativamente tramite un motore a corona provvisto di otto pulsanti di fine corsa.Questo marchingegno serviva per misurare e registrare i microspostamenti del volto della figura che aveva una treccia dei capelli collegata ad un tamburo  munito di leveraggi e pennino.Questo era uno di quei piccoli esseri meccanici, ma d’altra parte ce ne erano a decine. Vi era fra questi un  motore che spostava l’archetto quando la figura doveva essere sottratta alla misurazione per passare ad un’altra. Questo effetto di passaggio si sarebbe potuto ottenere semplicemente con l’azione manuale diretta dell’altra figura che compiva la misurazione. Tra loro, sentivo, doveva inserirsi un gradiente meccanico. Anche se questi elementi non potevano essere certo autonomi, volevo che fossero parte di un gioco di cui secondo coordinate e tempi ben precisi stabilissero le regole, insomma volevo che avessero  una loro vita, e la dovevano avere in pieno, senza nessun compromesso, anche se questa scelta mi richiedeva un’enorme fatica. E ancora: più era complesso e più doveva svolgere funzioni minime.Perché mi costringo a realizzare marchingegni la cui complessità è difficilmente percepibile, perché perfezionare fino all’esasperazione esserini elettromeccanici automatici: una volta innescati, sanno cosa fare. E’ una questione di necessità. Non parlo di automatismo legato al concetto di efficienza nella produzione industriale. Il meccanismo che intendo non serve all’automazione della macchina teatrale, non serve a renderla più veloce, o più comoda. Mi riferisco ad un essere che serve a sé stesso, che produce sé stesso. I sottoracconti meccanici sono produttori di senso e pur essendo forse sconsiderato, li considero filosofia applicata. Quella che chiamo drammaturgia del sottoracconto meccanico altro non è che una composizione di operazioni di analogia.Il pianoforte posto al centro del laboratorio di Eva futura è legato a questo tipo di concetto, ma solo adesso sento di poterne essere certo, non allora, quando lo pensavo e lo costruivo. Estab D 1858 è l’incisione sul telaio in ghisa. Spogliato delle sue parti esterne, del suo mobilio, quasi denudato. I suoi tasti sono collegati da tiranti metallici, provvisti di molla di ritorno, ad una batteria di elettromagneti, funzionanti a 24 volt corrente continua. Gli elettromagneti appartenevano ad una schiera di fotocopiatori a loro volta smembrati. Il suo funzionamento è molto semplice: un elettromagnete è un aggeggio che contiene una bobina, un rocchetto di filo di rame. Percorso da corrente elettrica, il rocchetto produce un flusso elettromagnetico che attrae il nucleo di ferro dolce,  trascinando con sé lo stelo metallico collegato al tasto del pianoforte, a simulare la percussione del dito sul tasto. A loro volta gli elettromagneti sono collegati ad una batteria di altrettanti triac elettronici, comandati dai livelli logici di un comune computer. Così si può programmare la successione degli eventi sonori.Guardi sempre più in basso. Hai a disposizione una doppia lente. Ruzzola i tuoi dadi.Visione x trasparenti. Più il tempo passa,  più l’immagine del laboratorio di Edison si confonde col laboratorio sotterraneo, coperto di pelli fulve, che custodisce i segreti di Hadaly. Pensavo di lavorare su Menlo Park, ma stavo in effetti, fin da subito, lavorando sul mondo dabbasso. Qualcosa di simile mi è successo con la tastiera del pianoforte. Sapevo che avrebbe dovuto sollevarsi: non poteva restare lì. Continuavo a chiedermi che cosa dovesse svelare questo sollevamento, che cosa dovesse lasciar vedere la tastiera che si levava verso l’alto. Solo oggi comprendo che questa preoccupazione non apparteneva al mio desiderio, alla mia necessità. Il problema si poneva, in questo caso, nella collocazione dell’oggetto di fronte a un osservatore. Per me era diverso. Guardavo e vedevo oltre. Perché fermarsi lì. C'era già tutto. Volevo l'arpa. A tutti i costi. Non avevo mai visto la tastiera di un pianoforte, sollevarsi. Così come non avevo mai visto la struttura interna, l'arpa.
             
           
             
         
La tastiera che si solleva, faticosamente, è un anelito verso la trasparenza. Metterlo da parte. Come se fosse semplice. Attraversa l'etere come un fulmine, quella sposa. Oggetto quadrimensionale che si lancia nel luogo della tridimensione per trovare lo stampo di se stesso bidimensionale.  Pianoforte spogliato, denudato; tasti ingombranti. “Non appena la si era notata, continuava ad occupare la mente: continuava anche non so cosa, i casi suoi certamente…Ciò che colpiva era che, non essendo semplice, non era nemmeno veramente complessa, complessa d’acchito, d’intenzione o d’un piano complicato. Piuttosto desemplificava via via che veniva lavorata… Così com’era, era una tavola con aggiunte, come furon fatti certi disegni di schizofrenici detti inzeppati, ed era terminata solo in quanto non v’era più modo di aggiungere alcunchè, tavola che era divenuta sempre più ammucchiamento, sempre meno tavola…Non era adatta ad alcun uso, a niente di ciò che ci si aspetta da una tavola: Pesante, ingombrante, era appena trasportabile. Non si sapeva come prenderla (Né mentalmente, né manualmente). Il piano, la parte utile della tavola, progressivamente ridotto, scompariva, essendo così poco in relazione con l’ingombrante intelaiatura, che non si pensava più all’insieme come a una tavola, ma come a un mobile a parte, uno strumento ignoto di cui non si fosse conosciuto l’uso. Tavola disumanizzata, senza alcuna comodità, che non era borghese, non rustica, non di campagna, non di cucina, non da lavoro. Che non si prestava a nulla, che si difendeva, che si sottraeva al servizio, alla comunicazione. In essa qualcosa di atterrato, di pietrificato. Avrebbe potuto far pensare ad un motore fermo”. Non confondiamo le cose: non è il metallo della stufa che ci scotta, è l’energia calorica al suo interno. Il pianoforte non è i suoi tasti, non è i suoi pedali, non è la schiera dei meccanismi produttori del suono. La tastiera è il velo che ottunde, che taglia, come per le sfere nel mondo piano di Abbott. I tasti del pianoforte: l’apparizione, l’arpa: l’apparenza. L’azione degli assistenti nel laboratorio di Eva futura è il premeditato atto di distruzione dei tasti del pianoforte. L’operazione che è sottesa alla simulazione non è legata alla costruzione di una nuova realtà: è legata allo svelamento di un’altra realtà. Forse per fare questo occorrebbe separare il modello della simulazione da ciò che esso imita. “Certamente, una simulazione non dovrebbe…venir confusa con ciò che essa rappresenta…ma non dobbiamo cadere nella trappola dell’inferire erroneamente che la simulazione di un sistema X non possa mai essere a sua volta un sistema X”. Così, il concetto di canone, che non faceva parte dell’idea iniziale, ma che ho capito entrare progressivamente nel lavoro, ha rappresentato per un certo tempo una perfetta matrice per ciò che succedeva nel laboratorio. Nel canone un unico tema viene contrapposto a se stesso. In pratica le varie voci che partecipano al canone eseguono ognuna una copia del tema. C’è nella ripetizione, una sovrapposizione di copie.  Bene, quello che appare ora evidente è che, se nel canone è insita l’idea di aggiunta, noi abbiamo operato al contrario, per successive sottrazioni.Denudamenti, spoliazioni.  Stato transitorio. Non lo considerano neppure uno stato. Rimango sempre sul concetto di svelamento. Lavorare sull’analogia, che può essere confrontare i metodi tipici del creare matematico con quelli del creare artistico, può rientrare nella categoria dei processi di svelamento. Non è possibile trasporre quello che avviene all’interno della mente del matematico, prenderlo e associarlo al disturbo mentale del creatore teatrale, non è assolutamente possibile e non è neppure lecito come d’altra parte non è lecito associare il teorema di Gödel a strutture che siano diverse da quelle tipiche della matematica, a strutture che non utilizzano i numeri e le loro proprietà. Però diviene lecita l’operazione di analogia, se viene intesa come operazione di svelamento. Io parlo anche di chiarificazione. E’ possibile chiarificare a se stessi il modo con cui si procede? Di più. E’ lecito proporre a se stessi una simile domanda?  Le analogie servono a questo: a chiarire a se stessi se la domanda è plausibile, se è sensato proporre a se stessi una domanda chiarificante sul proprio fare.Indimostrabile ma vero.In questo senso posso allora accettare  l’idea che Eva Futura sia un’applicazione del teorema di incompletezza di Kurt Gödel, che Eva Futura sia uno sguardo autoreferenziale, che Eva Futura sia una macchina di simulazione.Il teorema in questione scardina la possibilità che un sistema matematico possa  essere  completo (per completezza si intende la possibilità di dimostrare che tutti i teoremi appartenenti a quel sistema siano ricavati dagli assiomi di partenza).Gödel nel 1931 riuscì a dimostrare che i sistemi matematici ogni qualvolta tentano di rendersi completi falliscono, perché al loro interno vi è sempre una proposizione indecidibile, non dimostrabile, ma vera."Tale teorema costituisce precisamente un contributo al lungo sforzo dei matematici per spiegare a sé stessi cosa sia una dimostrazione". Nel caso dell’opera di Gödel, il sistema al quale la parola dimostrazione si riferisce è quello dei Principia Mathematica di Bertrand Russell e North Whitehead. “Il cardine di dimostrazione del teorema di incompletezza di Kurt Gödel è la scrittura di un enunciato matematico autoreferenziale, allo stesso modo in cui il paradossso di Epimenide è un enunciato autoreferenziale del linguaggio.  Ma mentre l’enunciato di Epimenide (Epimenide era un cretese che affermava: ”tutti i cretesi sono mentitori”) crea un paradosso poiché non è né vero né falso, l’enunciato di Gödel è indimostrabile ma vero. E la conclusione è che il sistema dei principia mathematica è incompleto: vi sono enunciati dell’aritmetica che i metodi di dimostrazione del sistema sono troppo deboli per dimostrare". Così, a prima vista, sembra che Gödel abbia scoperto una differenza finora sconosciuta fra il ragionamento umano e il ragionamento meccanico. "Questa misteriosa discrepanza tra la potenza dei sistemi viventi e quella dei sistemi non viventi si rispecchia nella discrepanza tra la nozione di verità e quella di teorematicità"…L’affermazione di Gödel introduce così una sorta di fede.La verità in qualche modo diventa più potente della dimostrabilità. Un tirante lanciato sulla nuca dell’attore. Un trasmettitore attraverso l’etere.Dieci: sei un essere vero nel momento in cui operi la tua finzione.  Nove: vai al di là della tua rappresentabilità sulla scena. Otto: respira profondamente. Sette: senti una corda sulla tua nuca. Sei: abbassa il tuo sguardo. Cinque: evita le tagliole. Quattro: ma ci credi? Tre: se te lo dico, è vero. Due: vai, dove mai sei stato. Uno: torna indietro. Zero: sei al punto di partenza Nel sistema teatro ogni qualvolta si tenta di concretare l’atto di finzione, si avverte che qualcosa si scardina. Ciò non è dovuto ad una inefficienza del sistema teatro, come non lo è per l’aritmetica. E’ una questione di limite.L’analogia allora viene da sé: teorema di Gödel e teorema dell’attore? Sistema dei Principia Matematica e sistema teatro?Il teorema dell’attore ha come assioma la simulazione. Ogni qualvolta si tenta di dimostrare che l’atto di finzione nella rappresentazione è un atto di verità, gli assiomi del sistema teatro non danno la possibilità di dimostrarlo perché l’assioma primo dice che quando si opera sulla scena, si opera in una finzione, e quindi in una non  realtà.Bene, credendo che questa finzione sia la vera realtà che noi vogliamo raggiungere, il teorema di Gödel forse ci suggerisce l’esistenza di un altro teorema, il più importante, che dice che l’atto di finzione dell’attore, quando lo vuole, è realtà, anche se ciò non è dimostrabile.Così a prima vista sembrerebbe esistere un legame, finora a noi sconosciuto, fra il teorema di Gödel, la filosofia del lavoro dell’attore, e il sintomo isterico che porta in sè il concetto di simulazione.   
 
   
       
             
   
             
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